Tradizionalmente, si pensa alla Psicologia quale scienza che si occupa di come funzioniamo e di intervenire in situazioni di “rottura”, per ripristinare un equilibrio perduto. Senz’altro è un aspetto fondamentale di questa disciplina, ma rischia di mettere in secondo piano “l’altra metà del cielo”, ovvero come vivono, scelgono, sentono, si comportano, e pensano le persone che hanno la percezione di una buona qualità di vita.
Era il 1998 quando il presidente dell’American Psychological Association Martin Seligman propose di recuperare le origini della psicologia, chiedendo agli psicologi di orientare i loro sforzi non solo alla cura delle patologie mentali, ma anche al rendere la vita di tutti più produttiva e appagante. Per farlo sarebbe stato necessario potenziare le risorse delle persone ed aiutarle a crescere, adottando una visione di fiducia nei confronti dell’individuo.
In realtà, il movimento della Psicologia Positiva affonda le sue radici già nelle teorie di Carl Rogers che, negli anni ’40, sviluppò un approccio centrato sulle capacità di autorealizzazione e sul pieno funzionamento della persona, superando così la tradizionale concettualizzazione medica che vedeva la sanità e la malattia come due dimensioni dicotomiche. Anche Abraham Maslow, nel 1954, con la sua ormai celebre “piramide dei bisogni” ha richiamato la necessità di occuparsi dell’individuo sano come oggetto della psicologia.
Il pensiero di Seligman può essere meglio compreso pensando a come l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Salute, ovvero “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o infermità”. Questa visione sottolinea come tutti possediamo delle capacità costruttive, grazie alle quali migliorare e sviluppare la nostra salute e autostima.
Cosa significa “stare bene”?
Quindi, cosa significa “stare bene”? Ognuno di noi risponderebbe in modo diverso… e tutte le risposte sarebbero corrette! La qualità della vita ed il benessere sono infatti concetti relativi: ogni individuo ne elabora un’interpretazione personale, basandosi sulla propria salute fisica, il ruolo sociale e lavorativo ricoperto, la qualità delle relazioni affettive, la consapevolezza che ha di sé. E’ importante tenere a mente ciò che una lettura di questo tipo comporta: immaginiamo una persona economicamente benestante, con un ruolo sociale importante ma con una rete affettiva poco soddisfacente. Possiamo parlare, in questo caso, di “benessere”?
Alcuni direbbero di sì, ritenendo prioritarie la posizione lavorativa ed economica; altri sosterrebbero il contrario, ritenendo più pregnante l’aspetto relazionale. Addirittura la stessa persona, in momenti diversi della propria vita, potrebbe dare una lettura differente. Questo perché il concetto di “benessere” è dinamico e in continuo mutamento. Ricordiamoci che anche porsi obiettivi, piccoli o grandi che siano, è un atto volto a migliorare e a costruirci un’esistenza per noi soddisfacente.
Ma come si realizza questo approccio nella pratica? Privilegiando interventi finalizzati al potenziamento delle risorse presenti e alla riscoperta di quelle che ancora non sentiamo appartenerci, arricchendo così la Psicologia di una nuova dimensione talvolta troppo trascurata.